Nella lotta al Covid-19 gli anticorpi giocano un ruolo cruciale. Un anticorpo è una proteina che ha il compito di riconoscere microbi e molecole estranei come batteri e virus, per permettere al nostro organismo di combatterli e di neutralizzarli.
Il sistema immunitario ne produce di diversi tipi, che identificano il nemico con un sistema di connessione simile a quello di una chiave con una serratura.
Ogni anticorpo ha sulla propria superficie un'area, una sorta di chiave – denominata "sito di legame" – che gli permette di agganciare con grandissima precisione una molecola (la serratura) presente su un microbo aggressore. Il sistema immunitario inizia a produrre in massa questo anticorpo e in questo modo l'infezione viene sconfitta.
Sin dai primi mesi della pandemia, si è cominciato a pensare che una possibile soluzione per curare l'infezione da SARS-COV2 fosse estrarre dal plasma dei pazienti convalescenti gli anticorpi più efficaci nel neutralizzare il virus SARS-CoV-2. Questi anticorpi vanno poi iniettati endovena al paziente con lo scopo di combattere il virus. Ovviamente, però, prelevare il sangue da soggetti convalescenti non è sempre possibile e la quantità di anticorpi specifici (quelli diretti contro il SARS-CoV-2) che si possono estrarre è comunque scarsa e potrebbe curare soltanto pochi pazienti.
Per fortuna, negli anni '70 dello scorso secolo erano stati scoperti gli anticorpi monoclonali anche se, per poterli utilizzare come farmaci, è stato necessario attendere lo sviluppo delle tecnologie del DNA ricombinante. In pratica, si possono considerare gli anticorpi monoclonali come raccolte di un numero enorme – potenzialmente infinito – di chiavi tutte identiche, chiavi che possono quindi aprire un'unica serratura.
Se dobbiamo combattere un virus, ad esempio il SARS-CoV-2 – possiamo produrre in laboratorio una quantità illimitata di anticorpi monoclonali (le chiavi tutte identiche) dirette contro una molecola presente sul SARS-CoV-2 (la serratura). Si tratta quindi di un concentrato delle migliori armi del sistema immunitario per colpire il virus che, pur non essendo classici farmaci antivirali, sono in grado di agire bloccando la moltiplicazione del virus.
Diverse aziende farmaceutiche in tutto il mondo hanno sviluppato e sperimentato anticorpi monoclonali potenzialmente utili per combattere la pandemia causata da Sars-Cov-2. I primi a salire agli onori delle cronache sono stati i due anticorpi monoclonali prodotti dalla biotech americana Regeneron (casirivimab e imdevimab), isolati in un paziente di Singapore. Poi ci sono le molecole della multinazionale Eli Lilly, il bamlanivimab e l'etesevimab, e almeno un'altra dozzina di farmaci in via di sviluppo o di sperimentazione, tra cui uno di AstraZeneca (ad oggi denominato AZD7442) giunto alla fase 3 di sperimentazione con circa 6 mila pazienti arruolati. Alla ricerca su questa materia contribuisce anche l'Italia con le tre molecole isolate dal Monoclonal Antibody Discovery Lab della Fondazione Toscana Life Science, a Siena.
Nel complesso, i lavori preliminari ad oggi pubblicati sull'utilizzo di queste molecole non consentono ancora di arrivare a conclusioni definitive sulla loro efficacia. In particolare, i tre studi disponibili: due sugli anticorpi di Eli Lilly e uno su quelli di Regeneron, hanno dimostrato che gli anticorpi monoclonali, per essere pienamente efficaci, vanno somministrati nelle fasi precoci della malattia allo scopo rallentarne la progressione, ma non funzionano nelle fasi più avanzate dell'infezione. Questa constatazione non è sorprendente. Sappiamo infatti che tutti i virus – compreso il SARS-CoV-2 – inizialmente circolano nel sangue e quindi possono essere raggiunti e neutralizzati dagli anticorpi. Sappiamo però che in un secondo tempo i virus si nascondono all'interno delle cellule dove gli anticorpi non possono più raggiungerli.
Allo stato attuale inoltre non sono stati pubblicati dati sull'efficacia degli anticorpi monoclonali nei bambini.
Lo sviluppo e l'utilizzo di anticorpi monoclonali efficaci sarà uno di quei fattori capaci di contribuire alla lotta al coronavirus. L'idea degli scienziati è infatti quella di utilizzarli quanto prima sia per la prevenzione che per la cura della malattia.
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