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Diagnosi prenatale di malformazione congenita

Per i genitori è fondamentale il sostegno di un'équipe sanitaria adeguata durante tutte le fasi della gravidanza: la malformazione trasforma l'attesa della nascita del figlio 

La diagnosi prenatale di una malformazione congenita del feto durante la gravidanza rappresenta per la coppia dei genitori un momento di crisi profonda, caratterizzato dal crollo delle aspettative, delle speranze, dei desideri e soprattutto dalla perdita del bambino immaginato e atteso fino a quel giorno.

La coppia si ritrova improvvisamente priva di punti di riferimento sia interni sia esterni, in un mondo sconosciuto e pericoloso e come tale minaccioso.

Le metafore più utilizzate dai genitori per descrivere la situazione sono: "È come se di colpo il mondo mi fosse crollato addosso", "come se un terremoto tremendo avesse distrutto tutto ciò che c'era prima". Queste metafore ben raccontano lo spaesamento, il senso di rottura e di crollo che i genitori attraversano.

Al momento della comunicazione della diagnosi accade che le angosce e le paure siano così intense e pervasive da limitare temporaneamente la capacità di pensare della coppia: "Il terrore mi toglieva ogni possibilità di pensare".

Questo significa che la comunicazione va curata in modo particolare tenendo conto della fenomenologia delle reazioni psichiche dei genitori.

La presenza di una malformazione fetale altera nei genitori il normale processo di preparazione emotiva, mentale e materiale legato alla nascita di un figlio.

Ad esempio, hanno difficoltà a dare un nome al nascituro, a immaginarlo, a fare progetti per il futuro così come a preparare l'ambiente che lo deve accogliere in casa: manca uno spazio fisico e anche affettivo in cui far crescere fantasie e progetti.

Molte sono le emozioni e gli stati d'animo che si manifestano nella coppia: in prevalenza disorientamento, incredulità, panico, disperazione, rabbia, paura, senso di colpa e di solitudine. 

Frequentemente, a seguito della diagnosi, i genitori riportano una temporanea sospensione della relazione con il nascituro: "In qualche modo evitavo di vivere la gravidanza, la mia pancia quasi non la carezzavo e smisi di avere rapporti con la bimba che avevo dentro di me" ha detto una madre.

Quasi sempre la prima e più frequente domanda della madre è: "Come mai? Cosa ho fatto perché succedesse tutto questo?" e "perché?".

 

Per sostenere la coppia, il gruppo dei sanitari del reparto di chirurgia neonatale, composto dal chirurgo, dal neonatologo, dall'ecografista, dallo psicologo e dalle infermiere, ha imparato a riconoscere e comprendere le loro reazioni e le modalità di funzionamento psichico, puntando a diventare, fin dalla prima consulenza prenatale, il contenitore delle emozioni in gioco.

Si è osservato che l'ansia è massima al momento della comunicazione della diagnosi e tende a ridursi nelle consulenze che si susseguono ogni due, tre settimane fino alla nascita.

In particolare oggi sappiamo che esiste una correlazione inversa tra il numero degli incontri prenatali e il livello d'ansia riscontrato nei genitori alla nascita.

È quindi fondamentale essere consapevoli che la comunicazione della diagnosi non deve essere un atto unico, limitato alla sola trasmissione di informazioni, ma un processo che ha luogo nel tempo e all'interno di una relazione, che diventa lo strumento fondamentale di sostegno e di cura.

Per questo motivo, l’équipe della neonatologia fin dal primo incontro cerca di stabilire con i genitori una relazione in cui le loro complesse e diversificate emozioni possano essere contenute e restituite in maniera adeguata.

Il punto fondante dell’intervento è quello di giungere a definire un piano di cura concordato e condiviso con i genitori, che sancisca l'impegno comune e la disponibilità a fare il possibile per il nascituro. Nel perseguire questo obiettivo ci si è resi conto che è essenziale non solo "cosa" si comunica ma "come" si comunica.

"L'accoglienza calda, direi quasi familiare che trovammo, ci fece sentire meno soli". Questa frase di una coppia fa ben comprendere l'atmosfera che si crea durante le consulenze prenatali, atmosfera in cui è possibile destare una comunicazione bidirezionale: dall’équipe alla coppia e dalla coppia all’équipe.

L'elemento essenziale di questo metodo di lavoro è la continuità della cura nel tempo: dalla diagnosi fino al parto, dall'intervento fino alle dimissioni. Non solo quindi curare ma "prendersi cura".

La continuità è infatti un elemento indispensabile per stabilire una relazione di fiducia tra la coppia e l'équipe sanitaria. Il ritmo regolare degli incontri, ogni due, tre settimane, è sentito dai futuri genitori come un momento di ricarica, di conforto sugli inevitabili dubbi che emergono nel corso della gravidanza.

Come ha detto una mamma: "Conoscere le persone che si sarebbero prese cura di mio figlio, sapere che erano lì a mia disposizione, fu fondamentale".

La descrizione in termini semplici e con un linguaggio comprensibile e la concretezza del piano di cura da realizzare facilita la comunicazione e consente ai genitori di prefigurarsi il futuro.

Il percorso viene discusso e concordato con la coppia. "Avevo la necessità di conoscere tutte le tappe per poter prendere fiato ad ogni sosta", ha commentato una mamma ricordando i primi momenti della sua storia.

L'uso del linguaggio grafico, accanto a quello verbale, è stato introdotto negli ultimi anni per aiutare i genitori a rappresentarsi la malattia del figlio. "Inizialmente provavo a immaginarmi il corpicino di mio figlio ma non ci riuscivo. Per me l'ernia diaframmatica poteva essere qualsiasi cosa, i disegni mi hanno aiutata a capire".

L'offerta di uno spazio-tempo di ascolto da parte della psicologa, al di là degli incontri di controllo fissati con l’équipe medica, previsti nel caso la coppia ne sentisse il bisogno, è vissuto come un fattore rassicurante. I genitori sentono che il servizio è stato davvero pensato e organizzato per accoglierli in un momento di grande difficoltà.

L'invito a conoscere l'ambiente e il reparto dove sarà accolto il bambino alla nascita crea un legame con gli operatori e una familiarità con l'ambiente.

 Utile e ben accetta è l'opportunità di stabilire un contatto diretto con altre coppie che hanno vissuto o stanno vivendo la stessa esperienza.

"La chiacchierata telefonica con un’altra mamma, che aveva affrontato la mia stessa esperienza, fu fondamentale, mi tranquillizzò più di chiunque altro, tanto che cominciai a sperare".

Un'altra testimonianza sottolinea l’aiuto ottenuto attraverso la lettura delle loro storie: "leggendo la storia di un'altra mamma io e mio marito ci riconoscemmo in quelle parole e ci sentimmo meno soli".

L'esperienza accumulata negli anni ha permesso a tutta l'équipe sanitaria di verificare che entrare in relazione e accompagnare la coppia lungo il percorso della gravidanza e del ricovero significa condividere, ascoltare, partecipare a una difficile ma intensa esperienza umana.

Per questa stessa ragione è stato istituito uno spazio di ascolto - incontro settimanale aperto a tutti i genitori del reparto a cui partecipano il primario, la capo sala, la psicologa e il sacerdote.

La relazione tra i genitori e l'équipe sanitaria è uno strumento di cura che svolge funzioni fondamentali sia per i genitori sia per i medici, poiché la relazione diventa lo spazio in cui l'esperienza può assumere il suo senso.

Quasi tutte le madri che in gravidanza scoprono una grave malattia del figlio, ricordano di aver interrotto temporaneamente la relazione con il proprio bambino.

A seguito della diagnosi, il pensiero e l'attenzione dei genitori sono quasi sempre rivolti al futuro, che appare incerto e insicuro. Il dolore per ciò che si è perso e la paura di ciò che si dovrà affrontare compromettono in parte il contatto con il futuro bambino che diventa ‘il malato’.

Ed è proprio la paura della morte che rende, in genere, i genitori riluttanti a stabilire e consolidare un legame affettivo con il proprio figlio.

Le madri in alcuni casi evitano consapevolmente l'unione, la “fusione” con il feto: le fantasie sul figlio vengono limitate e si attende con ansia e paura che il periodo della gestazione si concluda il più rapidamente possibile. 

Non solo il bambino immaginato e atteso fino al momento della diagnosi scompare, ma diventa estremamente difficile pensare e fantasticare sul bambino "malato" che nasce e che poi, forse, muore.

La madre sperimenta un dramma profondo: da un lato c'è il bambino che sente crescere dentro di lei, che con i movimenti le ricorda la sua presenza e glielo fa sentire vitale, dall'altra c'è la consapevolezza che quel bambino potrebbe star male, soffrire e anche morire.

Ecco le parole di una madre: "Speravo, speravo con tutta me stessa che potesse farcela, a tratti ci credevo ma ho scelto di non comprare nulla per mia figlia, non volevo trovarmi nella condizione di avere una stanza, dei vestiti, dei giochi per una bimba che forse non avrei mai portato a casa."

Anche i padri vivono dolorosamente questo periodo. Un papà mi ha descritto con queste parole il suo travaglio: "In termini affettivi mi sono tenuto distante da mio figlio, c'era un pensiero inconscio di salvezza: se non mi ci affeziono, anche se lo perdo, non soffro così tanto. Non mi volevo sbilanciare in modo irrimediabile verso di lui". 

I padri, come le madri, spesso smettono di toccare la pancia, di parlare al bambino e a volte anche del bambino, come se la prefigurazione della perdita interrompesse ogni impulso a una relazione e a un contatto diretto. 

È evidente che i genitori, che si prefigurano la morte del figlio, vivono faticosamente il lacerante tentativo di mantenere una distanza affettiva dal figlio non ancora nato.

Si determina allora un paradosso: da una parte l'unica cosa che ai genitori rimarrebbe da fare è pensare al loro bambino, tenerlo vivo e presente nella loro mente, iniziando quello stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli aspetti che provengono dall'oggetto amato, così importante per la nascita della mente del bambino, dall'altra questa importante funzione ha difficoltà a dispiegarsi a causa della paura che li spinge a mantenere una distanza affettiva dal figlio.

È il processo che i genitori intraprendono a seguito della diagnosi e che si conclude solo dopo la nascita.
Il processo è caratterizzato dalla presenza contemporanea di due istanze opposte: la paura della possibile perdita del figlio, che li spinge a mantenere una distanza affettiva, e l'intensa speranza che il bambino possa farcela.

  • Prima fase: inizialmente la comunicazione della diagnosi genera nei genitori uno stato di shock emotivo e cognitivo, connotato da uno stato di confusione e disorientamento che impedisce loro perfino di comprendere e ricordare le spiegazioni degli operatori sanitari. Ecco le parole di una madre che descrive la sua prima reazione alla comunicazione della diagnosi: "Cominciai a urlare, emettevo solo dei suoni, non riuscivo a parlare, ero terrorizzata. La possibilità che il mio bambino potesse avere un problema non l'avevo mai messa in conto. Ero arrabbiata, delusa, mi sentivo sconfitta come donna e totalmente spaesata".
  • Seconda fase: al primo momento drammatico e complesso segue una fase difensiva di negazione, più o meno persistente, che rappresenta il tentativo di allontanare da sé l'evento doloroso e per il momento inaccettabile.I genitori così descrivono a posteriori questa loro modalità di reagire: "Mi sembrava una cosa impossibile", "continuavo a ripetermi che non era vero, che si dovevano essere sbagliati".
  • Terza fase: nella terza fase emergono nei genitori sentimenti intensi e contrastanti (rabbia-senso di colpa-paura- disperazione-speranza) non solo rispetto al proprio figlio, ma anche rispetto a sé e al personale medico. Le frasi tipiche dei genitori in questo periodo sono: "Ho il terrore di perdere il mio bambino", "mi sento travolta da un dolore acuto che non ha parole" o, "sono arrabbiata con Dio, perché proprio a mio figlio?", "è tutta colpa del dottore se mi trovo in questa situazione", "me la prendevo con me stessa, con mia figlia e con Gesù Cristo, perché non era normale." Durante la gravidanza l'interrogativo di fondo che i genitori si pongono e che ci rivela profondi sensi di colpa sembra essere: "perché è capitata questa malattia?" o "cosa ho fatto di male?".
    Solo in alcuni genitori c'è una domanda esistenziale più profonda: "che senso ha questa esperienza nella mia vita?" Considerare la situazione genera nella coppia un'intensa sofferenza caratterizzata dalla paura della morte del bambino e, in alcuni casi, anche dalla visione della malattia come castigo per colpe reali (rifiuto iniziale della gravidanza) o fantastiche.
    Padre e madre si sentono di solito responsabili, anche in assenza di elementi di realtà, proprio per il loro ruolo generatore e per aver scelto di continuare la gravidanza.
  • Quarta fase: Verso il termine della gravidanza in genere i genitori sperimentano la quarta fase, detta di adattamento, in cui comincia a delinearsi una possibilità di convivenza con una realtà che sul piano emozionale resta comunque dolorosa e sostanzialmente inaccettabile. È in questa fase che in genere riemerge la dimensione del bambino, i genitori scelgono il nome e alcuni osano preparare qualcosa per il nascituro. Ecco la testimonianza di una mamma: "Verso il settimo mese ho iniziato a fare conoscenza con mia figlia, lei cominciava a muoversi sempre di più e non potevo ignorarla. Ormai era impossibile. Fu a quel punto che con mio marito scegliemmo il suo nome." In alcune situazioni il timore di poter perdere il bambino è tanto forte che i genitori continuano a non investire troppo affetto nella relazione. Ecco le parole di una madre: "Provavo, tentavo di pensare il meno possibile a mio figlio perché appena lo immaginavo pensavo alla sua morte e piangevo". Questo è, in genere, il processo che accomuna i genitori, ma ciascuna coppia, anzi, ciascun genitore, ha il suo particolare modo di adattarsi alla realtà della malattia del figlio. Vive queste fasi secondo modalità e tempi diversi, con progressi e regressi, passando spesso in modo repentino e frequente da un'emozione all'altra, da un modo di reagire a un altro.

Possiamo dire che nella maggioranza dei casi nel periodo prenatale non si osserva la fase di riorganizzazione, intesa come un “venire a patti”, anche emozionale, con la realtà di un figlio malato e in pericolo e “venire a patti” con se stessi, come genitori di un bambino portatore di un problema.

In gravidanza lo spettro della morte, la possibilità che la vita non prevalga sono paralizzanti, i genitori rimangono come sospesi fino alla nascita quando finalmente si confrontano con la realtà del proprio figlio e anche con la difficile realtà della malattia, dell'intervento e del ricovero in ospedale.

 

Nel dipanarsi di questo percorso certamente il momento del parto e l'incontro con il proprio figlio rappresenta per i futuri genitori una svolta, in cui tutto ciò che si era immaginato e per cui ci si era preparati, diventa improvvisamente reale e concreto: speranze, timori, paure, desideri, si confrontano con la realtà.

Una madre ha fatto queste considerazioni narrando il suo percorso accanto al figlio: "Dopo il parto, nonostante continuassi ad avere paura di perderlo, ero lì accanto a lui e provavo a dargli tutta la forza necessaria per andare avanti."

 I genitori possono:

  • Trovare una equipe medica con cui stabilire una relazione di fiducia capace di rispondere agli interrogativi, che accompagni e sostenga i genitori nel definire un percorso di cura adatto alle necessità del figlio;
  • Conoscere prima della nascita i medici e il luogo dove sarà curato il bambino;
  • Avere dei colloqui di sostegno con uno psicologo per avere uno spazio e del tempo nel quale esprimere i propri vissuti e i propri timori;
  • Contattare altri genitori che hanno vissuto la stessa difficile esperienza;
  • Creare momenti di contatto con il bambino che è nella pancia al fine di favorire il senso di continuità tra la vita prima e dopo la nascita;

La difficoltà principale, infatti, sia per i genitori che per il figlio è la brusca separazione alla nascita e l'incontro in un reparto intensivo o sub-intensivo con tante barriere fisiche e ambientali che limitano e alterano il contatto naturale.

In tal senso sarebbe opportuno mettere in atto dei rituali già in gravidanza (es. una canzone, una storia) da poter riproporre al bambino alla nascita per facilitare e promuovere la relazione nascente.

 

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  • A cura di: Lucia Aite
    Unità Operativa di Psicologia Clinica
  • in collaborazione con:

Ultimo Aggiornamento: 21  Marzo 2023 


 
 

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